In questi ultimi tempi di emergenza sanitaria abbiamo assistito ad una serie di episodi di insofferenza, sconfinanti a volte nell’intolleranza, nei confronti dei runners (così ora vengono definiti sui giornali, forse per sottolinearne l’estraneità alla tradizione nazionale), dai clacson che suonano minacciosi agli insulti dai balconi, dalle volanti chiamate dai vicini fino addirittura a qualche aggressione fisica. Molti di noi hanno consapevolmente deciso in questi giorni difficili di rinunciare del tutto alla corsa e di restarsene a casa, confidando in un più o meno prossimo ritorno alla normalità. Altri lo hanno fatto senza molta convinzione, con rassegnazione, più che altro per quieto vivere. Qualcuno ha scelto di continuare a correre, in modo limitato e saltuario, cercando di districarsi fra i rarefatti e mutevoli riferimenti normativi e i percorsi accidentati intorno alle proprie abitazioni. Non senza prediligere gli orari e gli spazi meno frequentati, avendo cura di tenersi ben oltre la distanza di sicurezza raccomandata, non soprattutto senza interrogarsi sul senso di quello che stava facendo e sul perché un’attività finalizzata alla promozione del benessere psicofisico fosse improvvisamente diventata per molte persone una fonte di pericolo per la società. Chi è uscito per la sua mezzora di jogging (la corsa è un’altra cosa), sfidando il senso comune dell’imperativo categorico “io resto a casa”, lo ha fatto perché ha pensato di non mettere in alcun modo a rischio l’altrui e la propria salute e di esercitare legittimamente un diritto confermato, con molti e probabilmente troppi limiti, anche dalla normativa dell’emergenza. All’iniziale incertezza e al vago senso di colpa, attenuati solo dalle rare e coraggiose prese di posizione di quegli studiosi, come Silvio Garattini, che per età e autorevolezza potevano permettersi di rifiutare il comodo e assurdo luogo comune del podista-untore, si sono però presto sostituite nuove consapevolezze: che non sarebbe stato un periodo breve, che anzi il distanziamento sociale e l’autosegregazione avrebbero potuto rappresentare il modello prevalente della società a venire. Che i rischi legati alla sedentarietà, all’ansia e alla mancata esposizione alla luce solare si sarebbero rapidamente sovrapposti a quelli rappresentati dal coronavirus, amplificandone gli effetti negativi sulla salute delle persone e sul sistema sanitario.
Noi di Rifondazione podistica affermiamo la necessità di una discussione pubblica che affronti serenamente, senza preconcetti e isterismi, i temi fondamentali del diritto alla salute e alla libertà individuale per i bambini e gli adulti in tempo di pandemia, del dislavore del trasformarci in una comunità identitariamente fondata sul controllo sociale e sulla delazione e, al contrario, delle opportunità di promozione del benessere personale rappresentate dallo sport, praticato in condizioni di sicurezza, proprio in un momento drammatico come quello che stiamo vivendo. E che aiuti a riflettere sugli errori, sulle derive e sui parossismi attuali prima che i Manzoni, i Camus e i Saramago del futuro siano costretti a ricordarceli.